“Scommetto sull’Africa e le diaspore”. Colloquio con Mario Giro
Secondo il vice-ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, per l’Italia questo è “il momento della svolta”. O ci si chiude in se stessi o ci si apre al mondo, costruendo il futuro. Per farlo bisogna puntare sulle diaspore: ambasciatori ideali per il nostro Paese, anche nella prospettiva di uno sviluppo più sostenibile. E di una cooperazione migliore
“Un Paese che non si apre al mondo si suicida” scuote la testa Mario Giro, vice-ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale. Sono trascorse poche settimane dalle sue ultime missioni a sud del Sahara, ad Abidjan per il vertice tra Unione Europea e Unione Africana, e in Rwanda, il Paese che quest’anno detiene la presidenza di turno dell’organismo continentale con sede ad Addis Abeba. In entrambi i viaggi si è discusso di giovani, con i loro problemi, le loro speranze, i loro drammi e i loro successi. Il tema del vertice di Abidjan è stato “Investing in the Youth for a Sustainable Future”. E di “futuro sostenibile” si era parlato pochi giorni prima a Roma, nel corso del Summit delle diaspore, una prima assoluta italiana. “Un processo di partecipazione politica” aveva spiegato Ada Ugo Abara, rivolgendosi da “nigeriana, afro-italiana e sognatrice” ai rappresentanti di centinaia di associazioni messe in rete dal Consiglio per la cooperazione allo sviluppo.
Ministro, la crescita dell’Africa passa davvero per le diaspore?
“Da loro dipende anzitutto il futuro dell’Italia. Il Summit del 18 novembre ha sancito il riconoscimento delle diaspore come soggetto con il quale bisogna parlare a tutti i livelli e che deve essere ascoltato in tutti i fori. La politica ha bisogno di un apporto vitale, di sangue e visioni nuove. Le comunità immigrate prendano allora la parola ovunque e dovunque, alla tv o sui social media. Per il nostro Paese questo è il momento della svolta: o si va verso l’alto o si cade. Gli italiani di nascita potranno elaborare la coscienza nazionale, rendendola più ricca. Bisogna sbloccare la testa del Paese: c’è un problema di inclusione mentale e l’Italia rischia di restare senz’anima, un cadavere. Le diaspore devono prendere in carico tutti i problemi, a partire da quello della convivenza, che è la parola vera, differente da ‘integrazione’. Bisogna salvare l’Italia dal rischio di diventare chiusa in se stessa e razzista. Quella per lo ius soli, allora, è una battaglia di civiltà: in gioco ci sono principi etici, che possono sembrare astratti ma hanno invece a che fare con la vita concreta, con una qualità nuova della convivenza. In questa prospettiva il ruolo delle diaspore è decisivo”.
E qual è il nesso con il mondo?
“Un Paese che non coopera è un Paese in declino. Se ci chiudiamo ci suicidiamo. Senza le esportazioni e il mondo che acquista i nostri prodotti non saremmo nulla. L’Italia è un Paese basato sull’estero, la sua vera ricchezza. Abbiamo la seconda diaspora al mondo dopo la Cina. All’estero gli italo-discendenti sono apprezzati perché non ingeriscono ma influenzano. Allo stesso modo oggi deve essere riconosciuto l’apporto di chi è venuto qui in Italia. Se permetti ai soldi di spostarsi non puoi scandalizzarti che si spostino le persone”.
Il ruolo delle diaspore è sancito dalla legge 125/2014, che affida alla Cooperazione italiana il compito di promuovere pace e multiculturalità. Impegni che animano la nostra Costituzione, oggi decisivi, con il rischio che il mondo vada in un’altra direzione?
“Useremo le diaspore come leva e volano per creare quella migrazione circolare che è scambio ‘win-win’, di vantaggio reciproco. E per trasmettere all’estero quell’imprenditoria straniera che nasce in Italia”.
Al summit di Abidjan si è parlato anche di questo?
“Il vertice ha rappresentato una svolta sotto tanti punti di vista. Ci sono state manifestazioni allo stadio con attori e anche calciatori famosi come Didier Drogba per spiegare che spesso chi emigra è un ingenuo e non sa a cosa va incontro. Oggi bisogna rispondere a una nuova antropologia del giovane africano, che si muove indipendentemente, quasi all’avventura, rischiando poi di finire schiavo nel deserto, vittima di tratta. Abidjan è stata l’occasione per fare il punto su cosa serve adesso e per rilanciare gli impegni. Come Italia abbiamo riorientato la nostra cooperazione, puntando sui progetti per dare lavoro e trasmettere cultura d’impresa e dell’imprenditorialità ai giovani. In questa direzione si muove anche l’Unione Europea con il cosiddetto Migration Compact, uno strumento per gli investimenti nel quale è coinvolto anche il settore privato. Oltre alle migrazioni è stato questo il grande tema di Abidjan. Anche alla luce dei dati demografici, riguarda tutti: governo, ong e privati. Insieme dobbiamo creare le condizioni per la nascita di imprese, in particolare per articolare una rete di Pmi. Il giovane africano è cambiato. Oggi è più individualista. Si muove più facilmente e dunque è più vicino allo spirito imprenditoriale”.
Tra Italia e Ue c’è un allineamento?
“La nostra cooperazione ha anticipato un percorso che sta diventando europeo. Siamo stati apripista, non solo come ideatori dell’External Investment Plan ma anche rispetto alla cooperazione diciamo così più piccola, quotidiana e nazionale, quella nei singoli Paesi subsahariani. I nostri partner africani ci ponevano continuamente la stessa domanda: ‘Insegnateci a fare le Pmi’. Poi ci sono le esigenze dei giovani, che diventano sempre più numerosi, e la necessità di cambiare la cooperazione verso un modello più contemporaneo. Abbiamo messo insieme questi elementi ed è nato un impegno nuovo: fare in modo che si crei imprenditorialità per i giovani, che i giovani diventino imprenditori di se stessi. Questo non vuol dire che non faremo il resto, trascurando i settori tradizionali, come l’istruzione o la sanità”.
Le reti di ong Concord, Focsiv e Cini hanno presentato un rapporto dedicato al Fondo fiduciario di emergenza e ai Migration Compact dell’Ue per l’Africa. In occasione della presentazione dello studio, lei ha parlato di “ambiguità” nell’impiego delle risorse…
“Rispetto alla sicurezza e al controllo delle frontiere alcuni aspetti possono sembrare ambigui. Ma mi metto anche nei panni degli africani. E qui il tema è un altro: la tenuta dello Stato. Ci si dice: voi non potete fare operazioni di controllo delle frontiere. Va anzitutto sottolineato che quelli del Fondo fiduciario dell’Ue non sono soldi della cooperazione. Sono risorse differenti, aggiuntive, e quindi è possibile fare anche questo tipo di intervento. Ovviamente accetto la discussione, legittima, ma la risposta è che non stiamo sviando soldi della cooperazione. E aggiungo che il controllo delle frontiere è necessario per aiutare la tenuta degli Stati. Se non c’è uno Stato non può esserci cooperazione allo sviluppo”.
Quali sono stati i temi della visita in Rwanda?
“Sono andato a Kigali per incontrare il futuro presidente dell’Unione Africana, che adesso è appunto il capo di Stato ruandese, Paul Kagame. Mi sono focalizzato su due aspetti: da un lato, la tenuta dello Stato e la sicurezza, decisiva perché se le istituzioni crollano la situazione peggiora; da un altro, la cooperazione allo sviluppo, che concentra parte dei suoi sforzi nella creazione di uno spirito imprenditoriale. Su questi temi ho trovato ascolto e partecipazione da parte del presidente ruandese. L’Africa per svilupparsi deve cominciare a produrre. Penso soprattutto al settore dell’agro-business. Dobbiamo aiutarla a diventare produttrice e trattarla come un continente normale, come tutti gli altri”.
In Africa lo sviluppo è sicurezza?
“Non solo in Africa. Senza la sicurezza e la certezza del quadro istituzionale è difficile fare cooperazione: possiamo fare solo emergenza. Guardiamo cosa sta succedendo in Libia. Con chi parlare? Oggi abbiamo bisogno di creare sviluppo, anche rafforzando i contesti istituzionali nei quali operiamo”.
La Libia, appunto…
“Lì siamo a livello di emergenza. Cerchiamo di fare qualcosa per alleviare l’inferno nel quale stanno vivendo i libici. Qualcuno si domanda: è possibile alleviare l’inferno? Io penso che dobbiamo entrare negli inferni anche se ci ripugnano e non vorremmo vederli. Dobbiamo entrarci non per giustificarli ma per cambiarli dall’interno. Noi vogliamo chiudere i centri di detenzione in Libia; su questo non c’è discussione”.