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Nation-building: la lezione afgana e le tante sfide aperte

Quello del Nation-building è un concetto morto e ora definitivamente sepolto. Nel Sahel, in Libia, in Iraq, in Bosnia, la comunità internazionale è chiamata in maniera diversa a costruire strategie nuove e di lunga visione che vadano oltre il semplice impegno militare.

È stata una lezione. O, meglio, un ripasso della lezione. L’intervento militare in Afghanistan, in una logica di Nation-building, ovvero il tentativo di ricostruire una nazione, uno Stato, sul modello occidentale con istituzioni forti e centralizzate e una divisione di poteri politici, legali e militari non ha funzionato. “Quello del Nation-building è un concetto morto e ora definitivamente sepolto” sottolinea ad Oltremare Andrea Dessì, Responsabile del programma Politica estera dell’Italia all’Istituto Affari Internazionali (Iai) e direttore della collana “Iai Commentaries”.

D’altra parte, secondo Dessì, basta guardare anche all’origine di questo conflitto durato 20 anni per rendersi conto come, in realtà, gli obiettivi che lo avevano mosso erano molto lontani da quelli poi sventolati per anni. “Gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan in rappresaglia agli attentati di al-Qaida alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001; era ed è stata una guerra di natura punitiva. Solo una volta entrati, con la caduta del regime talebano di allora, e in preparazione al successivo intervento militare statunitense in Iraq del 2003, si è passati ad obiettivi secondari come quello del Nation-building, o l’esportazione della democrazia, la tutela dei diritti delle donne, delle minoranze, per le quali vi era necessità di costruire le istituzioni di uno Stato centralizzato che mai era esistito in Afghanistan. Ma questi sono obiettivi che richiedono strumenti diversi da quelli effettivamente utilizzati sul campo. Chiaramente non si può esportare la democrazia con le armi e ancora meno ricostruire uno Stato-nazione attraverso l’uso della forza”. In altre parole, il budget destinato alle forze di sicurezza è stato preponderante e non ha mai lasciato davvero il campo ad azioni efficaci di sostegno politico, economico e sociale. Emerso in particolare negli anni ‘90, quando gli Stati Uniti con il crollo dell’Unione Sovietica si ritrovano unica potenza globale, il concetto di Nation-building, o con parafrasi forse più familiare, di esportazione della democrazia di stampo occidentale in altri contesti attraverso l’uso della forza, ha più volte mostrato i suoi limiti. I fallimenti degli interventi in Somalia, in Libano e in altre località come appunto l’Afghanistan e l’Iraq lo dimostrano ampiamente. Ad oggi questo dovrebbe servire da monito per altri contesti dove, benché gli obiettivi possano anche essere diversi (quindi non necessariamente di Nation-building), lo strumento è lo stesso: uso della forza militare per affrontare questioni che attengono in ultima analisi alla governance, allo sviluppo economico, alla tenuta sociale.

Andrea Dessì

Il pensiero va subito al Sahel, area destinata a essere nei prossimi anni al centro delle attenzioni dell’Unione Europea e dell’Italia, che non a caso ha aperto nuove sedi diplomatiche (Niger, Guinea, Mali, Burkina Faso), ha moltiplicato gli sforzi di cooperazione, ha promosso frequenti visite istituzionali. “In Sahel abbiamo assistito a un crescendo di instabilità e di insicurezza con diversi gruppi armati che operano in zone dove i governi centrali sono storicamente poco presenti” dice ancora Dessì. “Ma a ben vedere non si tratta soltanto di problematiche securitarie o di terrorismo. Questa è solo la punta dell’iceberg, l’insicurezza e gli attentati, come le migrazioni, sono sintomi di problematiche molto più profonde e per le quali non esistono soluzioni puramente militari. Ci sono questioni di credibilità e legittimità dei governi, ci sono gli effetti dei cambiamenti climatici e c’è la crisi economica.” Secondo il ricercatore dello Iai, l’idea di sistemare le cose sostenendo semplicemente le locali forze di sicurezza è una strada che conduce agli stessi errori commessi in Afghanistan: “Se vengono meno l’elemento sociale, politico ed economico si ha un approccio destinato a fallire, foriero di problemi ancora più rilevanti e incapace di affrontare quelle questioni profonde su cui i gruppi jihadisti fanno perno”. Semplificando si potrebbe dire che il terrorismo non si batte con i droni.

In realtà questa consapevolezza in Occidente c’è, ma gli strumenti necessari per seguire strade alternative agli interventi militari, o anche integrative di questi, richiedono una unità internazionale molto difficile da raggiungere e hanno bisogno di tempi diversi e di una visione di lungo termine che può non combinarsi con le pressioni esercitate dalla politica interna dei singoli Stati, chiamati a confrontarsi con problematiche nate a migliaia di chilometri di distanza (come i flussi migratori). In altre parole, è politicamente più facile reagire ad una crisi in atto che dedicare risorse per prevenire una crisi che tutti sanno presto esploderà. Un intervento militare, anche umanitario, è più semplice da mettere in campo ma non è risolutivo. Anzi può determinare questioni ancora più gravi nel medio e lungo periodo. Un intervento di più ampio respiro, forgiato a livello internazionale, teso a una ricostruzione politica, sociale ed economica può mettere in moto un processo positivo, ma ha tempi, costi e modalità molto più complessi e non vi è nessuna certezza di successo.

Un Paese su cui i riflettori sono puntati in questi mesi è la Libia. Anche qui, l’intervento militare camuffato come intervento umanitario, dice ancora Dessì, aveva apparentemente un obiettivo chiaro, concluso con la caduta del regime di Muammar Gheddafi; però “meno chiaro era il dopo, tanto che cercando di limitare i danni si è finito con il crearne di nuovi”. Oggi in Libia si cerca di ricostruire le istituzioni, di favorire la riconciliazione politica e militare, si cerca di rimediare al vuoto di potere che si è venuto a creare dopo l’intervento Nato e in vista di una completa assenza di una strategia post-intervento, come appunto accadde in Iraq e anche in Afghanistan. L’obiettivo qua è la stabilizzazione, costi quel che costi, perché gli interessi principali rimangono di natura migratoria, securitaria e di approvvigionamento energetico, non la lotta alla corruzione o la creazione di istituzioni legittime in Libia.

Luca Leone

Cambiando completamente scenario e continente, alle porte dell’Italia e dell’Europa resta aperto, e silente, il pentolone della Bosnia-Erzegovina. “Fintanto che la comunità internazionale è stata presente e attenta, i risultati sono stati tangibili anno dopo anno, oggi però la situazione è cambiata e nodi irrisolti vengono al pettine” racconta ad Oltremare Luca Leone, esperto e studioso della regione, autore di diversi testi che in questi anni hanno contribuito a tenere una luce accesa sulla Bosnia-Erzegovina, tra cui “Dayton 1995”, “La pace fredda” e “I bastardi di Sarajevo”.

Il primo nodo, secondo Leone, riporta alla stessa pace di Dayton siglata nel 1995 nell’omonima località dell’Ohio, in una base militare americana: “La ricostruzione delle Istituzioni e del Paese è passata attraverso una Carta fondamentale calata dall’alto dove le istituzioni locali hanno avuto poca voce in capitolo mentre le minoranze non ne hanno avuta affatto”. La Carta costituzionale, allegato degli accordi di Dayton, “ha inventato soluzioni mai viste in questo Paese di circa tre milioni di abitanti, dando vita a una Federazione divisa in dieci cantoni su base etnica e fondata sul falso assioma che la gente non si sposti, cristallizzando la situazione al 1994”. Il secondo nodo è l’elevatissima corruzione: “In Bosnia-Erzegovina sono arrivati molti meno soldi che in Afghanistan, prima in forma di aiuti quindi in prestiti oggi difficilmente ripagabili e successivamente in forma di investimenti di imprese private”. Ciononostante la corruzione è palpabile e si affianca all’altra grande questione, ovvero la presenza di gruppi criminali oggi dediti soprattutto al traffico di esseri umani. Servirebbe, conclude Leone, un impegno della Comunità internazionale a dare più poteri all’Alto rappresentante, l’autorità istituita in seno agli accordi di Dayton, per la supervisione dell’implementazione delle condizioni previste dagli accordi di pace che posero fine alla guerra in Bosnia ed Erzegovina; e servirebbe una riapertura dei negoziati per riscrivere gli stessi accordi.

La Bosnia-Erzegovina non è l’Afghanistan, cambiano i contesti, il quadro geopolitico, gli attori in gioco. Ma le macerie dell’Afghanistan e dell’Iraq, come ha scritto sul The Guardian Jonathan Freedland, hanno definitivamente seppellito l’idea dell’interventismo occidentale. L’occidente è oggi più cauto, così come più cauta sembra essere l’intera comunità internazionale. Servono nuove misure, nuovi approcci, una diplomazia che esalti ancora di più la cooperazione come strumento di promozione di pace e sviluppo sociale.

 

Biografia
Gianfranco Belgrano
Nato a Palermo nel 1973, Gianfranco Belgrano è un giornalista e si occupa soprattutto di esteri con una predilezione per l’Africa e il Medio Oriente. È direttore editoriale del mensile Africa e Affari e dell’agenzia di stampa InfoAfrica, per i quali si sposta spesso nel continente africano. Ha studiato Storia e Lingua dei Paesi arabi e vissuto per alcuni anni tra Tunisia, Siria e Inghilterra prima di trasferirsi a Roma. Ha lavorato o collaborato con varie testate (tra cui L’Ora ed EPolis) e si è avvicinato all’Africa con l’agenzia di stampa Misna, lasciata nel 2013 per fondare con alcuni amici e colleghi il gruppo editoriale Internationalia.
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