Quei 20 anni di cooperazione in Afghanistan costruendo futuro
Infrastrutture, capacità e competenze, sviluppo sociale. Questi sono i semi tangibili di 20 anni di cooperazione condotti dall’Italia in Afghanistan e che difficilmente potranno essere messi da parte anche dal repentino cambio di regime in atto nel Paese.
Infrastrutture, capacità e competenze, sviluppo sociale. Questi sono i semi tangibili di 20 anni di cooperazione condotti dall’Italia in Afghanistan e che difficilmente potranno essere messi da parte anche dal repentino cambio di regime in atto nel Paese dopo il crollo delle precedenti istituzioni e il ritorno al potere dei Talebani. A sottolinearlo ad Oltremare è Giovanni Grandi, direttore della sede a Kabul dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), tornato in Italia con il ponte aereo messo in atto a metà agosto. “In questi 20 anni – dice Grandi – la Cooperazione civile ha fatto tantissimo con opere e attività che hanno lasciato il segno, come la strada da Kabul a Bamiyan o l’arteria stradale che a Herat ha consentito di deviare i mezzi pesanti ed evitare il centro della città”. Poi si potrebbero aggiungere il servizio di ambulanze ancora a Herat, gli interventi nella sanità infantile a Kabul, le azioni per preservare i beni culturali, il contributo dato alla riscrittura del codice penale, i tanti progetti condotti ancora in ambito sanitario e nell’agricoltura. Una parte importante di questo lavoro, Grandi ne è convinto, resterà, molto semplicemente perché è utile al di là di chi sieda al governo, è utile alle popolazioni e alle comunità locali. “Se pensiamo poi che l’età media degli afgani è di 28 anni e che noi siamo stati lì per 20 anni, possiamo anche affermare di aver contribuito a far percepire una governance nuova, gettando semi che in qualche modo abbiamo visto anche in quelle donne scese a Herat, dopo che la città era caduta in mano ai talebani, per dimostrare per i propri diritti”.
Tutto questo non si cancella, così come non si cancella il sostegno dato in questi anni per affrontare una vera piaga del Paese, quella rappresentata da mine e ordigni improvvisati che falcidiano le vite, le braccia, le gambe dei civili e spesso dei più giovani. E che lasciano in chi sopravvive anche “anime e menti” da guarire, sottolinea Alberto Cairo, italiano da decenni attivo in Afghanistan con il Comitato internazionale della Croce Rossa. “La piaga degli ordigni esplosivi – dice Cairo ad Oltremare – ha profondamente segnato l’Afghanistan. Le vittime sono state e sono tante. Nonostante il Paese abbia firmato il Trattato di Ottawa, nuove mine hanno continuato a essere disposte dalle varie fazioni combattenti, soprattutto nelle zone di conflitto, con effetti sul territorio enormi. Lo sminamento procede, ma larghe aree restano a rischio, colture e pascoli sono stati abbandonati”. Il peso umano è ancora più grave, con decine di migliaia di persone rese disabili fisicamente e segnate psicologicamente. Dall’inizio delle sue attività, la Croce Rossa – che gode anche del sostegno dell’Italia – ha assistito 208.921 persone in sette centri (Kabul, Mazar, Herat, Jalalabad, Gulbahar, Faizabad, Lashkar Gah). A Kabul vi è una fabbrica dove sono realizzate le parti componenti le protesi, poi stampelle, carrozzine e altro materiale ortopedico; c’è anche una scuola per tecnici ortopedici. Nei sette centri, nella scuola e nella fabbrica lavorano 816 persone; di queste, il 95% sono persone disabili e 230 sono donne. In altre parole, è stata adottata una politica di “discriminazione positiva”, in base alla quale si dà lavoro e si formano solo persone disabili, maschi e femmine, in genere ex pazienti, in tutti i mestieri. Attività sostenute dall’Italia, ricorda Giuseppe Schiavello della Campagna italiana contro le mine, con il Fondo della legge 58 che ogni anno ha destinato con regolarità risorse per la Mine Action.
Se la Croce Rossa sta a valle dell’assistenza a chi viene colpito dall’esplosione di un ordigno, a monte sono associazioni come Emergency che prestano le operazioni di primo soccorso e gli interventi chirurgici necessari a salvare vite umane. “Attualmente abbiamo tre ospedali in Afghanistan, di cui uno nella valle del Panshir, aperto nel 1999, che non è solo un centro chirurgico come gli altri due, ma anche un centro pediatrico e la sede di un reparto maternità che abbiamo rinnovato da pochissimi anni. Questi tre ospedali poi sono collegati a una rete di posti di primo soccorso e centri sanitari che al momento sono 44, divisi in varie province” racconta a Oltremare Rossella Miccio, presidente di Emergency, la ong da poco rimasta orfana del suo fondatore Gino Strada. “L’altra cosa bella di questi ospedali e di quello del Panshir in particolare è che sono anche centri di formazione per chirurghi, per pediatri e per ginecologhe e ostetriche. In questi anni abbiamo formato le nuove generazioni di dottoresse, di ostetriche dell’Afghanistan, sfatando anche una serie di tabù, e lavorando insieme a loro proprio per far crescere la consapevolezza della propria professionalità, del proprio ruolo, tanto che alcune sono diventate un punto di riferimento per quei villaggi che magari all’inizio erano più restii ad accettarne il lavoro in ospedale”.
Emergency oggi può contare su una presenza abbastanza radicata nel territorio, sulla collaborazione di più di 1200 afgani e su un centinaio di espatriati, sia italiani che di altre nazionalità. Una struttura rimasta intatta anche con l’arrivo dei Talebani a Kabul e che ad Emergency intendono portare avanti e rafforzare. Questo approccio di incisività nel rispetto della cultura locale, è ravvisabile nelle modalità stesse con cui l’Italia nelle sue varie componenti si è mossa in Afghanistan. “L’Italia cerca sempre un compromesso che porti ad accordi e non a confronti” spiega Giampaolo Cadalanu, storico inviato di Repubblica, che in questi anni ha fatto spesso tappa a Kabul. Questa logica, per esempio, ha consentito azioni che senza tanta fanfara sono riuscite a salvare vite umane: “Tra i vari esempi mi viene in mente l’impegno dell’Italia per il carcere femminile di Herat, che più che una prigione è diventato un rifugio per quelle donne che avevano problemi all’interno delle loro famiglie. O ancora il sostegno dato ai reparti grandi ustioni, dove si è intervenuti per rispondere alle donne che si danno fuoco, un fenomeno purtroppo tuttora presente in Afghanistan”.
Non sono stati 20 anni di cooperazione inutile, sono stati 20 anni in cui molto è stato fatto e lasciato. Senza dimenticare il futuro. “In attesa delle necessarie indicazioni politiche e degli sviluppi sul terreno – spiega Giovanni Grandi ricordando anche la grande prova come Paese nel ponte aereo seguito alla caduta di Kabul – Aics sta lavorando a una valutazione del portafoglio di iniziative in corso per capire quali riorientare e quali mantenere”. L’intenzione della Cooperazione, d’altro canto, non è quella di abbandonare l’Afghanistan, dove oggi la sfida principale è la mancanza di sicurezza. “Fino a che il Paese non è in pace (pace vera) – dice ancora Alberto Cairo – mancherà un vero sviluppo in settori essenziali come istruzione, sanità, economia, giustizia, trasporti, con categorie vulnerabili della popolazione, disabili e donne, che pagheranno un alto prezzo”.
Gianfranco Belgrano
Nato a Palermo nel 1973, Gianfranco Belgrano è un giornalista e si occupa soprattutto di esteri con una predilezione per l’Africa e il Medio Oriente. È direttore editoriale del mensile Africa e Affari e dell’agenzia di stampa InfoAfrica, per i quali si sposta spesso nel continente africano. Ha studiato Storia e Lingua dei Paesi arabi e vissuto per alcuni anni tra Tunisia, Siria e Inghilterra prima di trasferirsi a Roma. Ha lavorato o collaborato con varie testate (tra cui L’Ora ed EPolis) e si è avvicinato all’Africa con l’agenzia di stampa Misna, lasciata nel 2013 per fondare con alcuni amici e colleghi il gruppo editoriale Internationalia.