Solidarietà e accoglienza: l’Italia alla prova della crisi afgana
L’arrivo in Italia di famiglie afgane attraverso un ponte aereo che ha consentito una rapida evacuazione umanitaria, ha scatenato un ammirevole slancio di una solidarietà nella popolazione.
All’appello lanciato dal Governo italiano hanno risposto molte comunità ed enti pubblici, privati e le organizzazioni della società civile del territorio, aderendo così liberamente a ciò che sembra essere divenuta una causa di solidarietà nazionale, a favore delle famiglie afgane, evacuate nel mese di agosto, strappate alle mani dei talebani. Secondo i dati diffusi dal ministero della Difesa, che ha coordinato le attività di evacuazione umanitaria con voli speciali, sono circa 5000 famiglie le persone che sono riuscite ad arrivare in Italia per mettersi in salvo. Ma non solo. Sono donne, uomini e bambini che hanno dovuto lasciare tutta la vita e le loro certezze dietro di sé ed ora devono necessariamente affrontare il difficile periodo di adattamento al nuovo contesto, inevitabile per ogni migrante costretto a scegliere la via dell’esilio: ricominciare. Per questo, la voglia, la forza e il coraggio da soli, a volte non bastano. Ci vuole altro nella nuova destinazione.
Chi sono le persone evacuate
Innanzitutto, è importante chiarire che le persone che hanno beneficiato di questa speciale forma di evacuazione umanitaria, sono coloro che hanno lavorato in questi anni a fianco del personale militare, della missione consolare e diplomatica, ma anche dell’Agenzia italiana della cooperazione allo sviluppo (Aics), delle Ong e aziende italiane impegnate in Afghanistan.
In primo luogo, dalla primavera 2021 l’Italia ha avviato le operazioni di evacuazione umanitaria per i collaboratori e interpreti del contingente italiano di stanza in Afghanistan, visto il progressivo deteriorarsi delle condizioni di sicurezza nel Paese: con l’operazione Aquila 1 e 2 entro luglio 2021 sono stati evacuati 619 cittadini afgani, al fine di garantire loro protezione in Italia.
Nelle ore immediatamente successiva all’ingresso dei Talebani nella capitale Kabul, il ministero della Difesa ha lanciato l’operazione Aquila Omnia, per una pronta evacuazione di cittadini italiani e collaboratori afgani, attraverso un ponte aereo con il Kuwait e successiva evacuazione verso l’Italia; l’operazione ha avuto luogo tra il 13 e il 27 agosto 2021 riuscendo a condurre fuori dal paese 5011 cittadini afgani, di cui 1301 donne e 1453 minori.
Esempio della Sardegna
Il Ministero dell’Interno da subito è stato incaricato di organizzare le attività di accoglienza sul territorio nazionale, attraverso la rete delle Prefetture nell’ambito dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas). Gli Enti territoriali, titolari dei progetti Sai (sistema accoglienza e integrazione) hanno immediatamente fatto pervenire la loro disponibilità, attraverso la voce di Anci, l’associazione dei comuni italiani, al fine di ricondurre il tutto al sistema unico di accoglienza diffusa, per garantire una piena titolarità dell’intervento e promuovere ogni sinergia possibile con le comunità territoriali ospitanti. Come tanti enti territoriali, la Regione Sardegna si è messa in moto: “Il popolo Sardo non è insensibile davanti alle sofferenze che molti cittadini afgani inermi stanno subendo ad opera di un regime totalitario. La Sardegna farà la sua parte”, ha detto il repsidente della regione, Christian Solinas, commentando l’arrivo sull’isola del primo gruppo di cittadini Afgani. Anche la Diocesi di Cagliari, tra gli altri, in accordo con la Prefettura territorialmente competente ha accolto circa un centinaio di profughi giunti da Roma in due fasi, a bordo delle navi della marina nazionale. Qui, secondo fonti diocesane, il 10 settembre alle ore 18 nella sala consiliare del Comune di Quartucciu si è svolto, anche alla presenza dell’arcivescovo di Cagliari, monsignor Giuseppe Baturi, un incontro per dare il benvenuto alle famiglie profughe afgane accolte nel Cas del capoluogo sardo.
Parallelamente, in Sardegna così come nel resto del Paese, si è dato mandato alle Questure ed alle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale di garantire procedure tempestive per consentire ai nuovi giunti di depositare la propria richiesta di asilo politico e per l’esame delle suddette istanze, cosi da giungere ad una rapida definizione del loro status giuridico, garantendo quindi l’ottenimento di regolare permesso di soggiorno e l’avvio di un pieno progetto di integrazione sociale e professionale (l’attività lavorativa è consentita solo 60 giorni dopo l’avvenuta richiesta di asilo politico), nonché scolastico per i minori.
I numeri
A proposito dei rifugiati afgani in Italia, negli ultimi dieci anni, dal 2011 al 2020, 17.670 afgani hanno chiesto una forma di protezione in Italia. Molti sono arrivati irregolarmente, soprattutto seguendo la cosiddetta “rotta balcanica”, e in minor parte via mare dal Nord Africa. Nello stesso periodo di tempo, l’Italia ha accolto 17.780 richieste in primo grado (alcune erano evidentemente arretrate dagli anni precedenti al 2011). Non tutti gli afgani che hanno ricevuto protezione in Italia si sono effettivamente fermati qui: secondo i dati aggiornati alla fine del 2019, in Italia vivono circa 11mila afgani. L’Italia ha ricevuto appena il 2,5 per cento di tutte le richieste di protezione avanzate da cittadini afgani nell’Unione Europea: ci sono paesi molto più piccoli che negli ultimi dieci anni si sono fatti carico di una quota maggiore di richieste come Austria (64.385), Svezia (63.810) e Belgio (31.680). In tutto negli ultimi dieci anni nei paesi dell’Unione Europea sono arrivate circa 697mila richieste di protezione da parte di afgani. Il numero di richieste non equivale al numero di afgani arrivati fra il 2010 e il 2021, perché alcune persone sono riuscite ad avanzare una richiesta in vari Paesi, circostanza teoricamente non permessa dalla normativa vigente.