UGANDA
La voce di Grace dal campo profughi di Elema: una storia di rinascita
Nei campi in Uganda trovano riparo migliaia di rifugiati provenienti principalmente dal confinante Sud Sudan. Qui una di loro ha stabilito la sua nuova casa ed è diventata leader della comunità
Grace ha 35 anni, gli occhi profondi e un sorriso gentile, come i suoi cinque figli. Ci racconta che ha lasciato il Sud Sudan, Paese dove è nata, quando aveva poco più di cinque anni e insieme ai suoi genitori è fuggita alla ricerca di protezione nel confinante distretto di Adjumani, Uganda del Nord. All’epoca il Sud Sudan non era ancora indipendente ed era lacerato dalla seconda guerra civile, durata oltre vent’anni.
Oggi Grace è leader comunitaria nel campo profughi di Elema, dove risiedono circa 1.200 rifugiati provenienti in larga parte dal Sud Sudan. Non ricorda – o forse non vuole ricordare – i dettagli della fuga e del suo primo arrivo in Uganda. Ci racconta invece che da quando è entrata nel Paese, ha avuto la possibilità di frequentare la scuola primaria, all’interno dello stesso campo, e secondaria, localizzata nel centro cittadino più vicino. “In questo Paese sono cresciuta e diventata adulta”, dice Grace sorridendo. Ci racconta che da quando si è stabilita ad Elema non è più tornata a casa, confermando la condizione di progressiva sedentarizzazione dei rifugiati sud sudanesi, legata al protarsi delle condizioni di insicurezza in Sud Sudan.
Come vicedirettrice del Comitato di benessere dei rifugiati, Grace ha anche il ruolo di assicurare una convivenza pacifica tra comunità rifugiate e comunità ospitanti ugandesi attraverso una continua opera di mediazione: l’uso congiunto delle risorse naturali infatti spesso crea tensioni tra i due gruppi, anche a fronte dell’enorme numero di rifugiati che ospita l’Uganda, in misura sempre maggiore. Si tratta del primo Paese in Africa e tra i primi tre nel mondo per accoglienza di rifugiati: la cifra stimata è di 1,6 milioni di persone, di cui la maggior parte proveniente dal confinante Sud Sudan. Il Paese è ancora sconvolto da una guerra civile durata cinque anni, da tensioni interne e da anni consecutivi di inondazioni record che hanno provocato una delle più gravi crisi umanitarie del continente, con circa 2 milioni di sfollati interni e 2,2 milioni in cerca di protezione verso i paesi limitrofi. Secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), nei 18 campi del distretto di Adjumani a dicembre 2022 risultavano registrati circa 280.000 tra richiedenti asilo e rifugiati, di cui l’86% donne e bambini.
Anche a Grace, come ad ogni altro profugo regolarmente registrato nel Paese, il governo ugandese ha assegnato un appezzamento di terreno e i materiali per costruirsi un’abitazione; quando le chiediamo di mostrarci la sua casa, ci accompagna con orgoglio verso la sua abitazione, dove vive con la famiglia. La cosa che ci colpisce di più, mentre ci muoviamo tra i diversi campi che visitiamo nel distretto di Adjumani, è che risulta difficile accorgersi della differenza tra villaggi ugandesi e campi rifugiati, dal momento che questi sembrano estensioni del territorio circostante: stesse casette ordinate, stesse strade battute e polverose di terra rossa, stessi mercatini colorati. Anche qui, l’attività principale è l’agricoltura.
Il campo di Elema è uno di quelli dove interviene l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) con un’iniziativa di emergenza realizzata da Africa Mission – Cooperazione e Sviluppo (C&S) con Jesuit Refugee Service (Jrs) per favorire l’integrazione delle popolazioni sud sudanesi sfollate, ritornanti e rifugiate attraverso attività di formazione e di creazione di impresa per i giovani, sviluppando opportunità di guadagno e sostentamento. Nel campo di Elema, ad esempio, l’Agenzia ha sostenuto la costruzione di punti di accesso ad acqua potabile e interverrà per rinnovare un centro di aggregazione giovanile dove verranno realizzate attività ricreative per la comunità.
“Il sistema di accoglienza ugandese funziona”, conferma Grace, “e riesce a far sentire i rifugiati a proprio agio, senza che siano segregati. Abbiamo libertà di movimento, possibilità di frequentare scuole e accedere ai servizi di base”. In effetti, per quello che abbiamo potuto vedere ci sembra che il meccanismo sia efficiente: i rifugiati che entrano nel Paese, una volta passata la frontiera, hanno la possibilità di registrarsi presso i centri di accoglienza dislocati sul territorio e gestiti dall’ufficio del primo ministro ugandese, che insieme a Unhcr e ad un team medico si occupa di fare la prima registrazione in una piattaforma globale che permette anche alle autorità competenti di svolgere controlli di sicurezza. Dopo un primo ristoro, i profughi vengono inviati in un secondo centro, dove possono soggiornare qualche giorno e dove ricevono razioni di cibo dal Programma alimentare mondiale (Pam), prima di essere assegnati ad uno dei campi del distretto. Come il campo di Elema, che però, come ci dice Grace, è a piena capienza e dal 2014 non può più accogliere nessuno.
“Le tensioni con le comunità ospitanti esistono e sono legati principalmente all’uso della terra, ma ci sono anche casi di collaborazione e convivenza pacifica”, prosegue Grace. “I nostri figli spesso giocano insieme, e ci sono anche esempi di utilizzo congiunto di risorse senza tensioni, come accade con il nuovo punto di accesso all’acqua realizzato dalla cooperazione. Ci riteniamo molto fortunati e felici di poterlo utilizzare”.