Mali, quando essere motore di cambiamento diventa scelta di vita. E voi, di chi siete il sababou?
Sababou. Tutto ebbe inizio nel 2006 quando trovai per caso un piccolo foglietto abbandonato presso l’Istituto di cultura egiziana a Roma. Lo raccolsi, ignara che da quel momento la mia vita sarebbe cambiata per sempre. All’epoca vivevo per l’archeologia mentre quel foglietto mi parlava di un viaggio nel Mediterraneo per scoprire e documentare la diversità culturale. Partii e conobbi un’associazione umanitaria che operava in Africa sub-sahariana. Capii da subito che l’archeologia non mi bastava più, che la mia vita doveva avere un senso più profondo e grande. Dovevo scoprirlo.
Per 17 anni avevo cercato di far rinascere il passato, ora avevo voglia di cambiare il futuro, anche nel mio piccolo. Abbandonai tutto e nel 2009 mi ritrovai sposata con un uomo maliano e a vivere, non più all’ombra del Colosseo, ma a quella della falesia dogon, a Douentza, una cittadina con un’unica strada, così piccola che per attraversarla bastavano cinque minuti. Ogni mattina lo scenario che mi si proponeva era sconcertante, bambini di strada che raccoglievano da terra resti di cibo e donne infaticabili che vendevano verdura e succhi artigianali per pochi spiccioli, lungo quella strada. Un senso di precarietà era percepibile già allora. Sapevamo che quel sottile equilibrio si sarebbe presto rotto e fu esattamente ciò che accadde nel 2012. La popolazione fu costretta a lasciare le proprie abitazioni e scappare a sud o verso i paesi confinanti. Io stessa lasciai casa con la speranza di ritornarvi presto, invano.
Negli anni successivi mi occupai di portare assistenza umanitaria alla popolazione grazie a un progetto finanziato dalla Cooperazione italiana. Fu donato cibo alle famiglie più vulnerabili e alle mense scolastiche, furono distribuiti kit sanitari e alimentari in dieci scuole del distretto di Douentza e fondi agli sfollati e alle cooperative di donne per poter rimettere in moto piccole attività. Tutto sapeva di guerra e parlava della sofferenza di un popolo. Ascoltai storie di donne violentate, di persone uccise, di mani mozzate, di lapidazioni. Ascoltai dell’impunità e dell’assenza di uno Stato, di come ci si doveva nascondere per sopravvivere o anche solo per fumare una sigaretta o ascoltare musica. Interi simboli culturali distrutti e dati alle fiamme.
Nel 2020, la situazione non è cambiata di molto. Il paese è diviso in due: al nord si sopravvive a fatica, poco cibo, pochissime prospettive lavorative, mine antiuomo disseminate, rapimenti e uccisioni tra etnie differenti, violenze su donne e bambini, scuole chiuse. Anche quest’anno la popolazione sarà confrontata a un’insicurezza alimentare che toccherà un maliano su cinque, quasi 4 milioni di persone. Le discriminazioni di genere restano un ostacolo importante per il Paese che si posiziona al 184esimo posto su 189 paesi per indice di sviluppo umano, mentre l’indice di disuguaglianza di genere, che tiene conto delle disparità nei settori della salute riproduttiva, l’educazione e l’accesso all’impiego, classifica il Mali al 157esimp posto su 160. In Mali, una donna su tre ha subito almeno una violenza fisica, sessuale o psicologica nel corso della vita.
Questo è solo uno spaccato della quotidianità in cui sono immersa e, che, grazie al mio lavoro, posso contribuire a cambiare. L’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), non ha mai lasciato solo il Mali, soprattutto nelle zone del nord, martoriate e violentate da una crisi di cui sono stata testimone. Non avevo mai conosciuto cosa volesse dire vivere senza aver accesso al cibo, acqua, scuola; senza che i diritti fondamentali della persona siano rispettati. Ora sono costretta a confrontarmici quotidianamente senza mai dimenticare i principi che regolano il nostro lavoro, sapientemente racchiusi nella legge scritta dal nostro Presidente Napolitano nell’agosto del 2014 e che disciplina in modo generale la cooperazione internazionale allo sviluppo. Contribuire, con il nostro operato, a “sradicare la povertà, ridurre le disuguaglianze, migliorare le condizioni di vita delle popolazioni, tutelare e affermare i diritti umani, la dignità dell’individuo, l’uguaglianza di genere, le pari opportunità e i principi di democrazia, prevenire i conflitti, sostenere i processi di pacificazione”. I miei colleghi ed io crediamo fortemente che si possa contribuire ad un cambiamento per un mondo nuovo, migliore. Un mondo dove una piccola Hawa non muoia in seguito ad una mutilazione genitale e Aissata possa andare a scuola e non essere obbligata a sposarsi ancora bambina. Dove Mamadou possa imparare un lavoro che gli permetta di sfamare la sua famiglia senza dover pensare che l’unica soluzione possibile sia la migrazione; dove Ali non venga picchiato o torturato, Yacouba possa aver accesso a una giustizia equa e non corrotta e Djeneba non si ritrovi vittima di sfruttamento sessuale.
Grazie ai progetti realizzati da Aics in Mali, possiamo dare una risposta concreta ai bisogni quotidiani della popolazione, dall’accesso all’acqua con i progetti Kabala e Pronas, alla difesa dei diritti di donne e bambini, grazie ai progetti gestiti dall’Unfpa e dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. O, ancora, l’accesso alla scuola grazie a Unicef e il World Food Programme (Wfp), l’accesso al mondo imprenditoriale con il progetto “Brigade verte” per ragazzi disoccupati e i progetti nell’ambito dell’emergenza per le popolazioni del nord del Mali, grazie a Echo e ad alcune Osc italiane e locali.
Questo è il Mali che ho potuto conoscere in questi anni, un paese straordinario e unico fatto di paesaggi maestosi e persone semplici, grazie alle quali ho imparato il senso di comunità e l’importanza del vivere assieme; l’amore senza barriere culturali e religiose; nessun aspetto uguale o simile, ma tutto in comune.
Vi chiederete adesso cosa significhi “Sababou”. Sababou indica ciò che ha scatenato l’accadere di un altro evento. Il mio, di sababou, è stato quel piccolo foglietto abbandonato che mi ha permesso di incontrare la persona più importante della mia vita, mio marito, grazie al quale ho conosciuto questo Paese. Io stessa sono il sababou per le persone che ricevono un aiuto attraverso la Cooperazione italiana. E voi, di chi siete il sababou?