Palestina. Donne e lavoro
L’EMPOWERMENT FEMMINILE IN PALESTINA
Il rafforzamento economico delle donne palestinesi e la loro capacità di incidere, rendendosi protagoniste, nello scenario dell’imprenditoria in Cisgiordania e Gaza costituisce una delle priorità della cooperazione allo sviluppo italiana in Palestina.
Nel corso degli ultimi dieci anni, molteplici iniziative progettuali hanno stimolato e sostenuto piccole e microimprese femminili, rappresentando una costante del Programma italiano per l’uguaglianza di genere, in parallelo e spesso intrecciandosi con la protezione delle donne vittime di violenza di genere.
Questo viaggio tra alberi d’olivo e avamposti militari, Uffici ministeriali e una fitta rete di associazionismo, città trafficate e brulicanti di attività, obbligate conversazioni via Skype e storie piene di riscatto individuale, vuole offrire una panoramica dell’impegno italiano per le donne palestinesi e dei risultati conseguiti dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e dai diversi partner coinvolti nella realizzazione dei progetti volti al miglioramento della condizione femminile.
Un ringraziamento va dunque, oltre allo staff dell’Ufficio AICS di Gerusalemme, anche e soprattutto alle Rappresentanti di Un Women e Business Women Forum, attori chiave e partner di lunga data, che grazie ai fondi italiani lavorano ogni giorno per il miglioramento delle capacità imprenditoriali femminili in Palestina.
UNA PROSPETTIVA GENDER PER I DIRITTI DEI LAVORATORI IN PALESTINA
Le donne palestinesi lavorano nelle scuole, nell’agricoltura, nel mare spesso indefinito del settore terziario. Il tasso di disoccupazione femminile nel 2018 si assesta al 51%, il doppio di quello maschile. Guadagnano meno, anche la metà del salario maschile. Spesso devono sobbarcarsi la responsabilità di essere la sola fonte di sostentamento familiare e allo stesso tempo garantire la cura di casa e prole. In casi di sfruttamento estremo arrivano ad essere sottopagate fino a due euro al giorno.
Un quadro allarmante che ripercorriamo con il Viceministro del Lavoro Abdel Kareem Daraghmeh e Iman Assaf, la Responsabile della Gender Unit al Ministero del Lavoro. Tuttavia, si stanno facendo notevoli passi in avanti, grazie alla revisione della Legge sul Lavoro palestinese prevista nel quadro del Programma Decent Work, realizzato in partnership da Un Women e ILO e finanziato dalla Cooperazione Italiana.
Tra tazzine di caffè al cardamomo e sigarette che riportano ad atmosfere ministeriali dell’Italia da Prima Repubblica, scandagliamo il mercato del lavoro femminile in Palestina e i termini della Legge che lo tutela, molto avanzata nel mondo arabo ma resa inefficace dall’occupazione militare israeliana, che ha frammentato il territorio della Cisgiordania e rende, ogni giorno, estremamente problematici gli spostamenti di uomini e merci, in particolare per gli ispettori del Ministero che si muovono tra le varie aziende palestinesi verificando l’applicazione delle Leggi.
“Il progetto italiano ha formato i nostri ispettori, migliorando la logistica dei controlli ed accelerando i sistemi di controllo e sanzione delle imprese; inoltre, ci ha consentito di perfezionare il sistema di denunce a disposizione delle lavoratrici sfruttate”, racconta il Viceministro. “Ora è possibile sporgere denuncia in forma anonima e avvalersi di un numero verde che presto sarà
disponibile giorno e notte”.
La paura di perdere il lavoro se autori di una denuncia gela il sangue a chi, uomo o donna che sia, in Palestina sa di avere poche opportunità. Denunciare è spesso causa di licenziamento, e in un territorio dove le opportunità sono poche, spesso è meglio accontentarsi e continuare a testa bassa, ignorando i propri diritti.
Il lavoro congiunto tra Ministero del Lavoro e Sindacato ha prodotto in questo senso importanti risultati: durante le attività di awareness nelle aziende, svolte dal progetto, ben 700 donne hanno capito quanto fosse importante iscriversi al sindacato e lo hanno fatto. Due terzi di loro risiedono e lavorano nella Striscia di Gaza. Scopriamo questa e altre storie dalle Rappresentanti delle Gender Unit al Sindacato Palestinese del Commercio (Palestinian General Federation Trade Union). Sono sei le sindacaliste giunte dai principali governatorati: Nablus, Betlemme, Hebron, Ramallah. Dalle loro parole emergono storie dai risultati altalenanti, in cui costante ricorre la discriminazione subita, la minaccia spesso violenta, la trattenuta di parte dello stipendio, l’insicurezza di appellarsi alle Leggi per migliorare la propria situazione.
In alcuni casi, però, il sole della Palestina entra a illuminare volti e parole: imprenditori ignari della legislazione che grazie alle sessioni fornite dal Sindacato hanno deciso di riconoscere alle lavoratrici i loro diritti, una donna incinta licenziata senza giusta causa che è stata fatta riassumere, il salario minimo garantito per tutti i lavoratori, in qualche caso particolarmente virtuoso.
Torniamo con la mente all’incontro al Ministero del Lavoro, quando Iman Assaf ci aveva illustrato il lavoro di consultazione e coinvolgimento di società civile, imprenditoria, sindacati. Questi ultimi avevano giocato un ruolo decisivo nell’orientare il lavoro di revisione della Legge e nella produzione del Position Paper finale. Lo capiamo ora ascoltando l’intensità e l’impegno che queste sindacaliste investono sul campo per migliorare l’accesso ai diritti che sono lì, nero su bianco, a portata di mano, hanno bisogno solo di essere rispettati: la pensione, la maternità, il salario minimo, la sicurezza sociale che da mesi si discute in Palestina con rinnovata partecipazione.
Un lavoro enorme ma indispensabile che punta a colmare la distanza tra il dire e il fare che per molti risulta intollerabile. E il futuro? Lo chiediamo a Aysha Hmouda, alla Gender Unit del Sindacato. Un sorriso emozionato accompagna le sue parole, caricandole di senso e convinzione: “La sfida è continuare così, su questa strada, stimolando la cooperazione tra donne affinché aumenti la consapevolezza nei propri diritti e diminuiscano le diseguaglianze nel mondo del lavoro. Non siamo subalterne, dobbiamo solo diventare protagoniste!”
CONVERSAZIONE IN UNA STANZA BUIA
Inas e l’arte del ricamo palestinese dentro e fuori la Striscia di Gaza
Non è facile ottenere in tempi rapidi il permesso per entrare nella Striscia di Gaza, e quando lo si fa è necessario accertarsi che le condizioni di sicurezza siano accettabili. Una situazione fluida di tregue e attacchi da entrambe le parti, che si protrae ormai da troppi anni, impedisce di pianificare l’ingresso. Decidiamo allora di incontrare Inas virtualmente, dagli uffici AICS a Gerusalemme. Grazie all’aiuto di UN Women creiamo il collegamento, come intorno a un fuoco sacro ci stringiamo per entrare nell’inquadratura, ma una volta constatato il solito problema di segnale (maltempo, comunicazioni inefficaci) ci rassegniamo a parlare senza ausilio del video, sforzandoci di immaginare il suo volto e le sue espressioni, la stanza che avremmo osservato alle sue spalle, la storia che ci racconta. Una conversazione al buio, in collegamento con un altro pianeta, ma non per questo meno affascinante.
“Ormai è entrato anche nelle nostre teste” ci confessa Hadil, la collega di UN Women che traduce dall’arabo all’inglese, “ma dobbiamo ricordarcelo ogni giorno e comportarci di conseguenza, lavorando innanzitutto sulle parole: Cisgiordania e Gaza sono una terra sola, la Palestina, non due mondi staccati”. Hadil ha ragione, ma la realtà dei fatti sembra un’altra.
Le suggestioni prodotte dall’incontro in assenza lasciano spazio alla storia di Inas, 28 anni, single, dopo una laurea in Business Administration decide di coinvolgere alcune amiche e compagne di corso per costituire un’impresa al femminile devota all’embroidery, il ricamo di abiti, borse, cuscini e altri oggetti, uno dei più importanti patrimoni dell’arte popolare palestinese). La sua famiglia da subito la sostiene e in diversi modi: la sorella che vive a Ramallah le organizza la vendita dei prodotti in Cisgiordania, il fratello che possiede una libreria nella Striscia le mette a disposizione il
suo spazio per coordinare il lavoro con le collaboratrici. La famiglia allargata si pone da subito come il principale bacino di vendita – parliamo infatti di circa 10,000 persone!
L’aiuto fornito dal fratello, poter incontrarsi in un luogo terzo e neutro, consente ad Inas di superare una barriera sociale che da subito le si pone davanti. I mariti di queste donne, infatti, non permettono una visita in casa sua per lavorare o semplicemente parlarle, sono impensieriti dalla presenza degli uomini della sua famiglia– fratelli, padri, zii. Il lavoro procede quindi nelle singole case, dove le collaboratrici di Inas si occupano delle rifiniture che vengono loro assegnate, mentre la rete di vendita si avvale di Facebook e della promozione social. Ad oggi, la fan page di Motarazat Sabaya è seguita da oltre 12,000 followers.
Quando il Business Women Forum la coinvolge nel progetto sul lavoro dignitoso, Inas non solo può investire soldi nel marketing online ma anche accedere ad informazioni ed acquisire nozioni di economia aziendale mai ricevute prima: impara a calcolare i costi di produzione e ad abbatterli quando possibile, scopre come il lavoro di networking tra i diversi attori della filiera produttiva cui partecipa sia indispensabile per migliorare produzione e distribuzione. “Adesso non lavoriamo più in base a cosa sappiamo e vogliamo fare, per realizzare i prodotti che amiamo, ma rispondendo alle esigenze del mercato, pensando alla vendita” confessa con una punta di orgoglio, andando direttamente al cuore dell’intervento italiano per l’imprenditoria femminile palestinese.
Inas oggi ha 40 collaboratrici, e l’esperienza da imprenditrice le ha aperto gli occhi anche sull’importanza della trasmissione del sapere: vuole diventare formatrice e fare delle sue rinnovate capacità di presentarsi e parlare in pubblico, oltre che della sua consapevolezza da businesswoman, un bagaglio che non può limitarsi alla propria impresa, ma vuole servire da stimolo per altre donne che aspettano solo di ricevere un po’ di incoraggiamento.
LAVORO E GUADAGNO
Breve viaggio nei corsi di formazione per donne palestinesi imprenditrici
Tutta una questione di priorità: uscire dalle mura di casa ed esibire i propri prodotti, i cibi che si cucina con maestria, un’arte o una professione che ci identifica, prima ancora che guadagnare i soldi per sfamare la prole (circostanza comunque non infrequente nello scenario del lavoro femminile palestinese e della disoccupazione maschile, specie a Gaza). Esserci e riconoscersi, trovare un business cui dedicarsi anima e corpo – questo il motore di molte lavoratrici, che grazie ai corsi di formazione realizzati dal progetto italiano hanno potuto inquadrare in modo nuovo la propria attività.
Tra le partecipanti, alcune laureate ed altre con bassi livelli di istruzione, da subito le formatrici del Business Women Forum hanno rilevato gravi lacune riguardo i più elementari strumenti di gestione aziendale: nessuna idea di contabilità, nessun registro di entrate ed uscite, nessuna propensione ad analizzare le necessità e gli orientamenti del mercato cui rivolgersi, scarse capacità di presentare il proprio prodotto e capire a che prezzo venderlo, specialmente in un’ottica di guadagno. In quest’ultimo caso si tratta di un’impostazione legata alla consuetudine locale, che vuole le lavoratrici palestinesi invisibili o comunque non retribuite, che ha sedimentato in loro l’idea che il lavoro a guadagno zero sia lavoro a tutti gli effetti.
Con il procedere delle lezioni e degli esercizi pratici, un orizzonte inedito e avvincente si è aperto di fronte alle partecipanti, che ne ha re-impostato la mentalità (dall’essere al servizio esclusivo della famiglia al proporsi sul mercato con desiderio di guadagno) e le ha fatte confrontare con situazioni particolarmente impegnative. Parliamo di donne abituata e vivere in casa, che spesso avevano fatica a socializzare e presentarsi ad estranei, a integrarsi nei gruppi e infine a superare le proprie timidezze. Nessuna di loro però ha mollato prematuramente, tutte hanno
compreso quanto fossero necessarie quelle nozioni per rendere più efficiente la propria attività.
Al termine del corso, a ciascuna sono stati dati dieci giorni per elaborare un progetto di business, che poi è stato analizzato dalle formatrici e restituito alle partecipanti per tradurlo in azioni concrete. Ma l’impegno italiano non si è limitato a fornire strumenti: le formatrici hanno anche svolto diversi incontri con le partecipanti dopo il corso, offrendo un sostegno solido e duraturo, che ancora oggi continua a dare importanti frutti.
Un incontro umano e uno scambio di capacità che ha permesso di superare le tante differenze tra le partecipanti, non solamente di estrazione culturale. Attività imprenditoriali femminili nuove di zecca o avviate da anni, insediate nei villaggi o mosse dai centri nevralgici della Cisgiordania, hanno saputo avvalersi di un linguaggio comune, efficace per ogni persona. Grazie a diversi giochi, volti ad analizzare il rapporto tra qualità e prezzo, a posizionare i prodotti per la vendita, a colpire il centro del bersaglio per focalizzare la concentrazione e raggiungere gli obbiettivi, concetti chiave quali il profitto e la qualità sono divenuti accessibili per tutte le partecipanti, lanciando o rilanciando attività di impresa altrimenti zoppicanti.
Oggi queste donne hanno una nuova consapevolezza, prima che del mercato soprattutto di sé stesse: solo attraverso un ruolo sociale paritario e rinnovato potranno davvero diventare protagoniste della vita politica, economica e imprenditoriale del proprio paese.