Metti una sera a teatro a “Ouaga” (La cooperazione si fa sul palco)
Luca Fusi, attore e formatore teatrale, immagina per Oltremare un'intervista sulla sua esperienza in Burkina Faso, dove il teatro è occasione di crescita in un contesto fatto anche di povertà e conflitti crescenti
Come le è saltato in mente di andare a vivere in Burkina Faso?
E’ una storia lunga, cominciata 16 anni fa.
E non le sembra un po’ inconsueto venire a Ouagadougou per fare del teatro?
Ah, quello no! Ouagadougou è la città di riferimento per il teatro in Africa Occidentale, siamo un esempio per i giovani e le compagnie africane.
D’accordo, ma, non crede che il Burkina Faso abbia problemi più importanti che il teatro?
Certo, il Burkina Faso è classificato fra i Paesi più poveri del mondo, ma le assicuro che qui sopravvive una formula di vita che in altri Paesi si è persa. Mi riferisco ad un saper vivere in comune che ricorda certe abitudini che in Italia conoscevamo bene. Certo adesso con il terrorismo e la crisi Covid-19 le cose si complicano, però…
Però non mi ha detto cosa c’entra il teatro in tutto questo.
Il teatro è la punta visibile di un lavoro culturale in atto. Un lavoro che tende a valorizzare i saperi locali tradizionali per uno sviluppo individuale e di gruppo. Lo spettacolo pubblico, ad esempio, tradizionalmente non è una semplice occasione di distrazione per cittadini stressati, come ormai spesso nel mondo, ma un evento con una forte valenza rituale, identitaria, sociale e addirittura politica. Vale anche per stili teatrali di ascendenza occidentale: la critica sociale e politica della nostra Commedia dell’Arte risuona molto più forte qui in Africa che in Italia, per non parlare della tragedia.
Attorno a ciò si è sviluppato negli anni un utilizzo del teatro, che corrisponde profondamente all’aspettativa culturale locale e quindi ha un impatto notevole sulle popolazioni.
Quindi lei è venuto in Africa per insegnare il teatro e il suo impatto sociale?
No, da solo non avrei fatto nulla, o avrei ancora una volta applicato ricette occidentali per uno sviluppo del quale ignoravo totalmente i riferimenti e le aspirazioni locali. La realtà è che qui a Ouaga ho trovato un potente movimento artistico, fatto di persone del posto, che riflettono ed agiscono a livello locale.
Quindi ha trovato delle autorità locali sensibili all’apporto della cultura allo sviluppo?
Da una parte si può effettivamente dire che le istituzioni non contrastano la causa artistico-culturale, anzi, spesso sostengono moralmente le nostre iniziative, ma sono lontane da comprendere realmente le potenzialità legate al settore. Il lavoro vero, è portato avanti da strutture private, il che permette una maggiore libertà, ma crea anche una grande fragilità economica.
Lei, ad esempio, con chi collabora?
Principalmente con l’Espace Culturel Gambidi (Ecg), ma anche con il Cartel e con altre associazioni culturali.
Ce le può descrivere?
L’Ecg ha moltissime attività: una stagione teatrale, una compagnia, una scuola superiore di teatro, un centro di formazione e di ricerca, un festival e una radio culturale comunitaria.
Siamo un riferimento per il teatro di intervento sociale: Jean-Pierre Guingané, il fondatore, ha inventato il “Théatre- Débat”, e, dal 1975, le nostre compagnie hanno percorso il Paese e la regione con spettacoli sull’igiene, l’aids, la lotta all’integralismo. Formiamo altre compagnie e accompagniamo molti progetti per la diffusione di messaggi alle popolazioni.
Un nostro fiore all’occhiello è la Scuola di Teatro. I nostri diplomati lavorano quasi tutti nel teatro e nell’arte sociale qui in Burkina e hanno vinto vari premi internazionali. Collaboriamo con diverse scuole e università in Europa, tra cui il Teatro Arsenale di Milano e l’Accademia Paolo Grassi.
Lei è il direttore, immagino.
Il direttore è Claude Guingané, burkinabé, io mi occupo soprattutto della regia e delle attività pedagogica.
E i risultati?
Quello che sembra funzionare di più è la sinergia fra ricerca, produzione di qualità e radicamento nella comunità. Che si tratti di formazione, produzione artistica o intervento sociale, i risultati sono evidenti. Qualche anno fa, su questa sinergia, abbiamo anche realizzato un progetto europeo che è andato benissimo e ci è valso i complimenti dell’allora direttore generale di Devco, Manservisi.
Cosa state facendo adesso?
Collaboriamo, tra le altre cose, con l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) sia nell’ambito del progetto Isjf, attraverso una tournée regionale con uno spettacolo sui rischi legati all’immigrazione, che di Bridging the Gap II, con cui abbiamo realizzato delle pillole radio.
Prospettive?
Mi piacerebbe che chi opera in queste terre capisse l’importanza dell’azione culturale. Cerchiamo partner per sviluppare le nostre attività e per migliorarci. Abbiamo molti progetti nel cassetto, sul piano della valorizzazione della diversità culturale, della formazione professionale, dell’incontro culturale, della resilienza alla globalizzazione, della comunicazione e del radicamento sociale dei progetti in corso.
Una parola per concludere:
Non c’è futuro senza cultura.