La casa di Gharam al Shuqi in Libano non è altro che un vecchio negozio senza finestre. Una tenda rossa, appesa alla vetrata scorrevole che fa da porta principale, dà all’abitazione una parvenza d’intimità.
Dopo la morte del marito, Gharam si è ritrovata da sola con quattro bambini in fuga da un conflitto che ha già creato quattro milioni di rifugiati. Oggi vive a Ghazze, nella valle della Bekaa, il Governatorato del Libano che, per la sua prossimità con la Siria, ospita il 40% dei rifugiati siriani in Libano.
Nonostante siano già passati due anni, fa ancora fatica ad abituarsi alla sua nuova condizione di vita. In Siria ha lasciato la casa nella quale abitava e un’altra in via di costruzione. Il grande afflusso di rifugiati – quattro volte la popolazione locale – ha portato all’impennata i prezzi delle case, così che anche l’angusto negozio ora costa 250 dollari al mese.
Le stesse Nazioni Unite sono in difficoltà nel far fronte a quello che è stato definito l’esodo più importante dalla fine della seconda guerra mondiale. Come tanti, Gharam vorrebbe avere un impiego, ma il governo libanese non permette ufficialmente ai rifugiati di lavorare.
È in questo contesto che la Cooperazione Italiana ha deciso di finanziare un progetto ad alta intensità di manodopera realizzato da Oxfam Italia, rivolto alle fasce più vulnerabili della popolazione sia siriana che locale. Il coinvolgimento dei beneficiari in attività lavorative si distingue dai meccanismi d’aiuto più assistenziali, ritenuti meno adatti a rispondere a una crisi protratta come quella siriana.
In collaborazione con la Municipalità di Ghazze, sono state selezionate delle attività che contribuissero al miglioramento delle infrastrutture pubbliche, al duplice scopo di ridare dignità ai beneficiari attraverso il lavoro e di alleggerire le tensioni con la comunità ospitante.
Sebbene il progetto miri a garantire il coinvolgimento di alcuni settori specifici della società, tra cui le donne e la popolazione locale libanese, la selezione è affidata ad appositi criteri di vulnerabilità, attraverso i quali si arriva ad avere 8 gruppi di beneficiari da 50 persone ciascuno che lavorano 24 giorni nell’arco di un mese e mezzo.
Per stimolare la partecipazione di donne sole come Gharam, alle quali il progetto si rivolge in particolar modo, si è scelto per loro un luogo di lavoro protetto quale il parco pubblico di Ghazze. Il primo gruppo per la gestione dei rifiuti ha iniziato a lavorare ad aprile pulendo il giardino e la strada d’ingresso, in risposta al bisogno di riabilitare gli spazi verdi all’interno della città. Un secondo gruppo si è occupato della riabilitazione delle opere, contribuendo alla pulizia dei canali di scolo della strada principale e apportando migliorie al parco pubblico.
Il progetto prevede il coinvolgimento di 410 partecipanti, ciascuno dei quali guadagna un totale di 445 euro a turno, una cifra che per molti fa la differenza. Con questi soldi Gharam ha riacquistato la salute, potendo finalmente permettersi le spese mediche per tre interventi dei quali aveva bisogno.
Oltre all’aspetto economico, il progetto ha permesso la riduzione del 30% dei rifiuti a terra e nei corsi d’acqua di Ghazze. Le diverse attività educative organizzate parallelamente hanno favorito la sensibilizzazione della popolazione, sia rifugiata che locale, su temi quali ambiente, riciclaggio, consumo di risorse idriche e igiene. La conoscenza limitata delle conseguenze igienico-sanitarie di una cattiva gestione dei rifiuti, unita all’incremento della popolazione, sono infatti fattori di tensione che è necessario arginare.
“Voglio lavorare, non voglio essere dipendente dagli aiuti” dice Gharam. I 13 dollari al mese che ciascun rifugiato riceve dal Programma Alimentare Mondiale non sono sufficienti neanche a coprire le spese più necessarie. Anche se gli aiuti bastassero, molti li vivono come carità. La dignità di un lavoro è forse il bene che più manca ad un popolo la cui vita, ormai, è ferma da quattro anni.